Tecnologia, relazioni e connessioni.

Tecnologia, relazioni e connesssioni

Connessioni o relazioni?

Spesso diciamo che i tempi di prima erano migliori, invece adesso… Quante volte sentiamo questa frase!
Io credo che ci sia una parte di luce e una parte di buio, opportunità e rischio, ma possiamo riuscire a capire questo solo se partiamo dal concetto di uomo che c’è dietro questo tema.

Il problema antropologico è un problema serissimo perché da come si considera l’uomo si riesce a capire dove sta andando.

Se noi concepiamo l’uomo come persona dovremmo dire che la parte più interessante dell’uomo è nelle sue RELAZIONI.

Nelle relazioni le persone riescono a percepire la vita in un modo completamente diverso.

La qualità della vita passa attraverso le relazioni.

Non sono tanto le cose ma le relazioni ad avere l’ultima parola sulla felicità delle persone.
Ecco questa è la concezione dell’uomo come persona.

Quando invece l’individuo non si definisce a partire dalle sue relazioni ma guarda se stesso e si concentra soprattutto sui suoi bisogni e pensa che la sua felicità si trova nella soddisfazione dei suoi bisogni, stiamo parlando dello stesso uomo ma con due concezioni completamente diverse.

Viviamo in un momento storico dove trionfa l’individualismo rispetto invece ad una concezione più altruista.
Nell’individualismo tutto è concentrato attorno ai bisogni. Tutto questo viene fomentato per un motivo molto semplice: perché il mercato funziona così. Se tu sei attaccato al bisogno, se tu sei in relazione al tuo bisogno, se tu pensi che la cosa interessante della tua vita sono i tuoi bisogni fai circolare l’economia.

Tecnologia, relazioni e connessioni
Tecnologia, relazioni e connessioni

La cosa più importante non è l’economia che gira intorno all’uomo ma l’uomo che gira attorno all’economia e l’economia fa leva sui nostri bisogni.

Allora tutto quello che è costruito non sulle relazioni ma sui bisogni è quello che ci viene propinato costantemente.

Una certa cultura pubblicitaria vende e crea dentro di noi costantemente il bisogno di un bisogno, il bisogno di sentire costantemente che ci manca qualcosa. Allora cosa succede?

Succede che si scatena dentro di noi una dinamica univoca a livello antropologico, cioè più mangiamo e più abbiamo fame, più prendiamo le cose più siamo insoddisfatti e così alziamo costantemente il livello, l’asticella.
Non importa più se si possiede un telefono che funziona ma a un certo punto quel telefono, tre mesi dopo o sei mesi dopo, è già obsoleto e in noi nasce inconsciamente il bisogno di dover cambiare una cosa che funziona ma non è più rispondente ad un bisogno. Una molla costante che spinge a dover stare al passo con i tempi dettati da altri.

Quindi la cultura individualista è costruita appositamente perché noi dobbiamo consumare, perché noi dobbiamo comprare, perché noi dobbiamo far circolare l’economia. Elementare Watson! Direbbe Sherlock Holmes.

Ma la domanda è: un individualista può essere felice? Se si afferma questo allora se stesso è un individualista.

Il problema serio è che un individualista può solo essere sazio ma come diceva un grande pensatore, il Cardinal Biffi, molto spesso siamo sazi e disperati.

La felicità è la sazietà?

No! Allora che cos’è che ci rende felici?

La felicità la sperimentiamo soltanto quando ci sentiamo corrisposti in un bene, quando riusciamo a voler bene, a sentirci voluti bene.

Penso che ciascuno di noi si accorga che la propria vita funziona quando ci si sente amati, al contrario la nostra vita comincia a diventare invivibile quando non ci sentiamo amati. Quando una persona non sente la fiducia addosso, il bene di qualcuno, comincia a rallentare tutto, non riesce a fare più bene niente perché si sente costantemente giudicato.

Quando sentiamo che qualcuno ci vuole bene cominciamo ad affrontare le cose con una forza completamente diversa, ci accorgiamo che la qualità della vita non ce la danno le cose ma i rapporti. Se hai dei rapporti sani, profondi, puoi affrontare qualunque cosa.

Quindi l’investimento più interessante per una persona è nelle relazioni non nelle cose perché le RELAZIONI RIGUARDANO IL VERBO ESSERE non il verbo avere.

Le relazioni ci dicono chi siamo. Le cose che abbiamo non sempre ci dicono chi siamo, molto spesso amplificano il nostro vuoto.

In questo senso dobbiamo decidere da quale parte stare, se in una concezione altruista o in una concezione individualista.

Quando pensiamo alla tv, internet, quest’epoca dei social, del virtuale, delle connessioni, dobbiamo domandarci se questa per noi è un’opportunità o la celebrazione della nostra disperazione.

Dobbiamo stare attenti a non confondere mai le connessioni con le relazioni.

Tecnologia, relazioni e connessioni

Connessioni o relazioni. Qual’è la differenza?

Quando siamo connessi con qualcuno non ci incontriamo, ci scambiamo semplicemente delle informazioni. La relazione non è semplicemente lo scambio di alcune informazioni, la relazione è incontro con l’altro.

Quindi pensare di avere 5mila amici su facebook e che questo ci renda persone meno sole, è proprio un’illusione.
Avere un alto livello di connessioni forse dà l’impressione di avere tante relazioni ma c’è una grande differenza tra la relazione e la connessione.

La connessione può diventare un modo attraverso cui noi non riusciamo mai ad affrontare veramente la vita, non riusciamo mai a stare veramente dentro la realtà. Quello che dovrebbe essere uno strumento che amplifica le nostre relazioni potrebbe diventare la tomba delle nostre relazioni.

Non possiamo prendercela con il sistema, fa il suo lavoro, l’economia fa il proprio lavoro, chi vende un prodotto fa il proprio lavoro.

Ciascuno dovrebbe sviluppare un senso critico che ci dica chi siamo noi dietro questa tecnologia, chi siamo in tutta questa storia, cioè come vogliamo collocarci in tutto questo.

Qual è l’uomo dietro l’esperienza social? Qual è l’uomo dietro l’esperienza delle connessioni? Qual è l’uomo dietro l’esperienza del virtuale?

È la persona o l’individuo che ha capito che la propria vita vale in quanto relazione o in quanto attaccamento alle cose? Attaccamento al proprio bisogno?

La tecnologia è neutra.

La tecnologia non è né buona né cattiva, semplicemente la tecnologia è neutra.

Quindi l’atteggiamento che dobbiamo avere nei confronti della tecnologia è assolutamente un atteggiamento di neutralità.

L’errore più grosso è quello di enfatizzare il nuovo, pensando che tutto il meglio della nostra vita è sempre nella cosa nuova.

Noi pensiamo sempre che la vita è nella novità: nella persona successiva che dobbiamo amare non in quella attuale; è nell’amico che dobbiamo conoscere non in quello attuale; è nel partner diverso che dobbiamo ancora conoscere non in quello attuale; è nel lavoro che dovremmo fare e non in quello attuale; è nella vita di lunedì non in quella di oggi…

Quindi siamo sempre in una situazione di insoddisfazione. Allora cosa facciamo? Cerchiamo forsennatamente la novità che crea dentro di noi uno stato costante di adrenalina, come una droga.

Pensiamo che le cose vere sono le cose che ci emozionano ma ciò non è completamente vero, bensì le cose vere sono quelle che riempiono la vita di significato e ci emozionano.

La TECNOLOGIA è una grande occasione per ciascuno di noi.

È l’uso che facciamo della tecnologia che la rende buona o cattiva. Di contro il NON uso della stessa come ad esempio nella società Hamish in America, queste persone, vivono come se si trovassero ancora nell’ottocento rifiutando tutta la tecnologia anzi dando un’identità apposita, che diventa la contrapposizione al nuovo io.

Penso sia una lettura sbagliata il fatto di porci in difensiva nei confronti della novità, della tecnologia e che sia un atteggiamento ingenuo ipotizzare che le nostre scelte possono fermare la globalizzazione.

Dobbiamo avere l’intelligenza di capire che ci troviamo in un momento storico di delicatissimo cambiamento e come viverlo.

Del resto non è la prima volta che questo succede.

La storia è piena di nodi di cambiamento.

Come abbiamo reagito alle invasioni barbariche? Come abbiamo reagito alla frammentazione dell’Europa? Chiudendoci e basta?

All’epoca bonificavano le paludi e costruivano monumenti che proteggevano la cultura; ricopiavano i libri, che diventavano come degli scrigni di un amore appassionato per ciò che c’era; questo lento lavoro ha fatto si che il cambiamento diventasse una grandissima opportunità per tutti noi.

Quello che noi siamo oggi lo dobbiamo soprattutto a quello che è successo a cavallo tra il primo e il secondo millennio.

Anche quando ci fu il passaggio dalla cultura agricola alla cultura industriale, le grandi industrie attiravano la gente ad andare nelle città a lavorare. Da un lavoro che era scandito dal ritmo della giornata, del sole che sorge e che tramonta, della terra che dà i suoi frutti; alla fine si trovavano ad entrare nelle catene di montaggio per infinite ore al giorno.

Non si può fermare un cambiamento del genere perché prima o poi accade all’interno della storia.

Giovanni Bosco raccolse i ragazzini dalla strada e si dedicò alla loro educazione.

Creò l’oratorio, un luogo dove potevano giocare, imparare un mestiere, per entrare nella catena del lavoro ma in una maniera umana.

Il cambiamento non lo si può maledire tantomeno idolatrare ma bisogna fare qualcosa, bisogna prendere posizione. Se Giovanni Bosco fa questo nell’ottocento noi oggi con quello che stiamo vivendo, cosa possiamo fare?

Molto spesso la gente celebra sui social la propria solitudine, fa pornografia del proprio dolore.

Uso questa parola forte perché il dolore fa parte di una certa intimità.

Nessuno di noi girerebbe nudo in un paese, avrebbe un minimo di pudore nel fare questa cosa e col dolore è la stessa cosa. Com’è possibile che una persona metta la propria sofferenza così in mostra? In vetrina? Forse perché è così sola da non riuscire a fare diversamente?

Come possiamo aiutare queste persone a recuperare la relazione che è nascosta in una connessione? Le connessioni non sono le nostre relazioni.

Non tutte le connessioni sono delle relazioni e non per forza le nostre relazioni hanno bisogno di connessione.

La tecnologia è neutra ma conserva dentro di sé un immenso potenziale di bene e di male a seconda dell’uso che ne facciamo.

Dobbiamo raccogliere la sfida del nuovo e cercare di capire come possiamo umanizzare questa novità. Lasciare che essa venga ma che non diventi mai una novità che sfigura l’individuo, che sottrae all’uomo la sua umanità, che lo sfrutta soltanto perché deve produrre bisogni, deve comprare ed entrare nel circuito economico.
La tecnologia proprio perché è neutra la possiamo umanizzare, umanizzare uno spazio, umanizzare il tempo, umanizzare gli strumenti, umanizzare le cose, umanizzare le relazioni. Domandiamoci cosa è rimasto di umano in quello che viviamo.

Uniformare è rassicurante ma è soprattutto disumanizzante. Umanizzare invece significa dare l’opportunità all’unicità di ciascuno di noi di emergere.

Non dobbiamo avere paura di questo cambiamento, non dobbiamo avere paura di questa opportunità che ci viene messa nelle mani ma dobbiamo umanizzare quello che sta accadendo cioè fare in modo che non sia la novità a definire noi ma essere noi ad esprimerci attraverso la novità.



Manuela Di Dalmazi



p.s: Scusate, forse ho approfittato della vostra ancora paziente umanità!🤗